Che Pil
In questi giorni di crisi di governo, come tanti italiani, la mia attenzione si è rivolta verso le esternazioni dei nostri politici nazionali. Sebbene ci fossero delle reali motivazioni per analizzare le parole di Conte oppure le farneticazioni di Salvini, ciò che mi ha letteralmente rapito è la stata parola “PIL”.
In rete girava da alcuni giorni infatti una tabellina, “casualmente” citata da un deputato prima e da un senatore poi di diverso schieramento (Borghi, Lega e Renzi, Italia Viva), che mostrava come l’Italia fosse uno dei paesi del mondo che più aveva sofferto economicamente la pandemia.
La scoperta dell’acqua calda.
Questo risultato veniva ovviamente sbandierato dai banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama come dimostrazione certa dell’operato disastroso del governo in carica.
Contemporaneamente, Letizia Moratti ha subito fatto rimpiangere il dimissionario Gallera chiedendo al commissario Arcuri che il piano vaccinale seguisse anche una valutazione economica: chi produce di più come Regione, deve avere più vaccini.
Le domanda e le obiezioni che mi hanno suscitato queste esternazioni sono molte.
L’Italia ha subìto senza dubbio un grave contraccolpo economico dalla pandemia, ma per onestà intellettuale andrebbe anche detto che, leggendo i dati, è stato dato letteralmente un calcio ad uno zoppo. Economicamente, infatti, siamo un paese fermo da anni – c’è chi dice da almeno venti -, non abbiamo ancora superato la crisi del 2009 e le previsioni di crescita pre-covid erano imbarazzanti. Crescita che, in un paese indebitato come il nostro, è fondamentale per non sprofondare. Nel corrispettivo con i paesi dell’eurozona siamo fanalini di coda da anni, con numeri che si aggirano tra il +0.1/0.2. Tutto questo però non ha mai creato troppo clamore mediatico, come accade spesso in Italia. Ci accorgiamo sempre che le cose vanno male, quando oramai sono irrecuperabili.
Il Pil è un termometro corretto per giudicare la salute di un paese? La dichiarazione di Istanbul – 2007, firmata da Ocse, Onu, Banca Mondiale, Commissione europea – poneva l’accento su una questione che già da alcuni anni veniva caldeggiata da diversi economisti: il superamento del PIL come indicatore unico di benessere. Quanto infatti può valere il PIL di una nazione, se agli stessi cittadini non è magari permesso di vivere in aree salubri, oppure non possono accedere ad una stampa libera o aspirare a lavori dignitosi, alla pari degli altri concittadini? Il fatto che alcuni paesi nel mondo – Nuova Zelanda e paesi scandinavi su tutti -, o la stessa Unione Europea, stiano ridisegnando le scelte nazionali, aggiungendo altri indicatori a quello produttivo, accresce la speranza che la strada di un nuovo modello di politiche, sebbene lunga e tortuosa, sia stata intrapresa. Ora dobbiamo solo attenderne i frutti, sperando di non dover inseguire ancora una volta chi ha già fatto tanto strada prima di noi.
Infine la frase di Lady Moratti, che cela, ahimè, un pensiero abbastanza diffuso e comune: chi ha i soldi compra, chi non ce li ha si arrangia. Un paradigma talmente radicato nella larga parte dell’occidente, ossessionato dal denaro e dalla produttività, che il commento, per molti, è stato derubricato a gaffe e non ad una posizione politica ben precisa. È proprio su questi temi invece che dobbiamo lavorare: far capire che, tendendo una mano verso chi ha meno, si sta meglio tutti; far capire che gli ultimi non vogliono rubare niente, vogliono solo avere le possibilità che hanno i primi; far capire che per rendere felice una persona non basta dargli/promettergli soldi, ma anche servizi più o meno essenziali. Solo così usciremo dalla melma e, forse, anche dal giogo del PIL.
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